Carpe diem, quam minimum credula postero
La figura femminile in età repubblicana ed augustea
Hospes, quod dico paulum est, adsta ac perlege.
Hoc est sepulcrum haud pulchrum pulchrae feminae.
Nomen parentes nominarunt Claudiam.
Suum maritum corde dilexit suo.
Gnatos duos creavit. Horum alterum
in terra linquit, alium sub terra locat.
Sermone lepido, tum autem incessu commodo.
Domum servavit. Lanam fecit. Dixi. Abi.
Straniero, ho poco da dirti, fermati e leggi.
Questa è la tomba non bella di una donna bella.
I genitori la chiamarono Claudia.
Amò sinceramente il marito.
Fece due figli. Di questi, lasciò uno ancora vivo, l’altro è sottoterra.
Piacevole nel parlare, elegante nell’incedere.
Custodì la casa. Filò la lana. È tutto. Puoi andare.
(Epigrafe romana dell’età dei Gracchi, II secolo a.C.)
Abbiamo chiesto al prof. Manca, nostro ospite mercoledì 15 gennaio scorso, di tracciare un ritratto della figura femminile in età repubblicana e in età augustea.
Il professore è partito da un’epigrafe dalla quale emerge il ritratto della donna dell’epoca, Pudica, lanifica, domiseda. Tali sono gli epiteti usati nelle iscrizioni funebri, che i mariti romani dettavano in lode delle consorti, per le quali non concepivano funzione migliore del filare la lana e del custodire la casa. Domum servavit, lanam fecit, conclude sobriamente il più celebre di questi elogi, riportato sopra.
Non è tuttavia possibile tacere il nome di un’altra donna romana, Fulvia, una donna che fa incidere la sua effigie su una moneta in occasione della Guerra di Perugia (42-40 a.C)
Moneta raffigurante Fulvia coniata in occasione della Guerra di Perugia
Donna odiata da Cicerone che in molte delle sue orazioni dalle Filippiche alla Pro Milone non ha risparmiato oltraggi verso di lei. Sappiamo che Cicerone non risparmiò attacchi neppure a Clodia nella Pro Caelio.
Era la sorella del celebre tribuno della plebe Clodio Pulcro. Venne additata da molti autori della sua epoca, per via della sua indipendenza e spregiudicatezza, che la allontanavano drasticamente dall’ideale di matrona romana pudica e morigerata.
Ebbe numerosi amanti, tra cui il poeta Catullo, il quale si suppone che le abbia dedicato numerosi componimenti, celandola sotto il nome di Lesbia.
La letteratura e la poesia, dice il professore, creano un universo parallelo, esse sembrano attribuire alle donne la forza dei sentimenti, della seduzione, trasformano le donne in “dominae” del cuore del poeta.
Lo stesso Cicerone nella sua operazione volta a deligittimare Fulvia e Clodia, attraverso accuse di gelosia, di oscenità, paventando rapporti incestuosi tra Clodia e il fratello, non fa altro che restituirci l’immagine di donne fuori dal coro, che non si piegano all’idea di stare sedute in casa a filare la lana.
Catullo, il poeta “novus”, del I sec. a.C., nella schiera dei poeti neoteroi, definiti da Cicerone con disprezzo cantores Euphorionis, per il loro gusto ellenizzante e aristocratico, ci consegna l’immagine di una donna, Clodia/Lesbia, assolutamente libera, libera di amare lui, più giovane di lei di 10 anni, ma, una volta stanca dello stesso, pronta a intrecciare relazioni amorose con altri uomini.
Anche Catullo in fondo, pur non risparmiando il racconto della sua vicenda esistenziale nel Liber, non ci lascia un’immagine autentica di Lesbia, ma di se stesso. E’ forse quest’ultimo un modo di deligittimare la donna stessa?
Le cose cambiano un po’ in età augustea con i poeti elegiaci, Properzio, Tibullo e Ovidio. In loro è evidente il gioco della letteratura; Cinzia, Delia, Corinna sono icone letterarie, addirittura Corinna è totalmente inventata dal poeta Ovidio.
Fino a questo punto però le donne esistono, hanno persino un ruolo nel gioco letterario.
Con il principato augusteo e il ripristino del mos maiorum, ahimè, continua il professore, le donne devono tornare nei loro ranghi; non più trame per ordire triumvirati e guerre, né più salotti in casa propria, ma solo madri e mogli. Virigilio e Orazio, poeti augustei, si adeguano a tracciare una strada lungo la quale le donne non sono così importanti, o sono viste come il sintomo di una decadenza dei costumi.
Il professore ci saluta però con un’ode di Orazio la I, XI; ci consola pensare che il poeta inviti questa donna, collocata in una relazione simmetrica con lui, a vivere l’oggi con infinita dolcezza.
Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile,
il tempo: cogli il giorno, il meno possibile fiduciosa in quello successivo.
Questo il ricordo dell’ultimo incontro nella rassegna “I mercoledì del Galilei”, con il quale ringraziamo il professor Massimo Manca per averci arricchito con la lucidità della sua ricostruzione e la professoressa Daniela Musumeci per averlo invitato. Grazie anche alla casa editrice Sanoma, che ha reso possibile questo partecipatissimo incontro.
Maria Diviccaro